I dati di realtà, lo scenario, le prospettive
Prima tappa_Aree interne, camminare insieme 5 febbraio 2021 Luca Bianchi Direttore Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) Importante questo confronto su un tema assolutamente decisivo per la tenuta economica ma, ancora più, per la tenuta sociale del Paese. Il progressivo spopolamento delle aree interne italiane è una problematica che riguarda in particolare il Mezzogiorno ma più in generale è uno dei grandi temi del nuovo secolo. Questo problema ha un effetto potenzialmente molto forte proprio sulla conservazione di cultura di territorio. Dallo spopolamento e dal conseguente abbandono del territorio potrebbero derivare diverse conseguenze in termini di dissesto idrogeologico, ma soprattutto una perdita in termini culturali che non possiamo permetterci. L’azione condotta dalla Strategia per le Aree Interne, che è un progetto con alle spalle diversi anni di attività, ha centrato l’obiettivo di sollecitare la riflessione nazionale su questo gigantesco tema ma la sua dotazione finanziaria è modesta rispetto al complesso delle risorse ordinarie, cioè quelle che alimentano sanità, istruzione, servizi sociali, mobilità, e da sola non può compensare scelte strategiche nazionali, che invece hanno finito per allontanare certi territori dal resto del Paese. La tutela e la sostenibilità Se da un lato è importante difendere la Strategia per le Aree Interne come un elemento importante per le politiche di coesione, dall’altro non ci possiamo rassegnare, per chi vi abita, alla condizione di specie in via di estinzione. Il tema è anche quello di una migliore distribuzione sul territorio di popolazione, attività produttive e servizi, come un elemento determinante di quel processo di realizzazione di un’economia più sostenibile. La sostenibilità è un tema centrale perché orienterà la gran parte delle risorse sia delle prossime politiche regionali di coesione sia una buona parte del cosiddetto Recovery Fund, il Piano Next Generation EU. E non si tratta soltanto di sostenibilità ambientale ma sociale in relazione ai processi di sviluppo. Il concetto prevalente dei processi di sviluppo degli ultimi anni era quello dell’agglomerazione, quindi sembrava ci fosse un destino immutabile per il quale esse dovessero concentrarsi all’interno delle grandi realtà urbane e, quindi, lo spopolamento delle aree interne fosse un elemento inevitabile. In realtà un processo di sviluppo così congegnato avrebbe comportato un ampliamento inaccettabile delle disuguaglianze territoriali, avrebbe fatto venire meno quel concetto di sostenibilità sociale che coniuga la crescita con la riduzione delle disuguaglianze. Non solo siamo il Paese con la crescita più bassa, ma siamo il Paese che ha visto più fortemente ampliarsi le disuguaglianze. Quelle di reddito (ricchi e poveri) e quelle tra territori. Quest’ultimo è un tema fondamentale per la costruzione di un nuovo modello di sviluppo post-pandemia che abbia al suo centro il tema della sostenibilità ambientale e sociale, altrimenti non avremo mai un cambio di passo. La crisi post-pandemia Questa drammatica pandemia da Covid-19 rappresenta uno spartiacque tra quella che era l’economia prima e quella che dovrebbe essere l’economia dopo. Anche il concetto di grandi aree urbane e aree interne può modificarsi per effetto di quello che è accaduto in questi drammatici mesi. Ci siamo resi conto che non esiste soltanto il modello della grande agglomerazione urbana; non tutti dobbiamo andare a vivere a Milano, ad Amsterdam, a Londra. Non tutti i giovani devono recarsi lì per realizzare le proprie ambizioni. In questi mesi abbiamo riscoperto che è possibile ad esempio lavorare a distanza. Non necessariamente la localizzazione dell’impresa deve coincidere con la localizzazione di chi ci lavora. Sull’ultimo rapporto Svimez abbiamo realizzato un ampio approfondimento sull’utilizzo dello smart working e il cosiddetto south working, ovvero come in questa fase di pandemia in realtà alcuni meridionali che lavoravano o studiavano nel centronord hanno deciso di tornare nel loro territorio, hanno continuato a lavorare e a studiare utilizzando i mezzi di comunicazione. Risulta che questo ritorno nelle loro aree di origine (spesso piccoli e medi centri del Mezzogiorno) ha avuto un impatto positivo sulla produttività, come ci dicono i direttori del personale, perché la migliore qualità della vita ha indotto anche a lavorare meglio su tempi più dilatati e meno stressanti, ma anche chi è tornato in quei territori ha potuto apprezzare l’essere comunità. La comunità ritrovata Si dovrebbe pensare quanto può cambiare la vita di un territorio di una piccola cittadina, di una piccola città, di un piccolo comune avendo dieci, venti, cinquanta, cento persone (studenti universitari o lavoratori di strutture di servizi del centronord) che tornano a vivere nel proprio territorio. Non è soltanto un problema di reddito, si spendono le risorse nel proprio territorio comportando un’accelerazione della crescita, ma vivere in quel territorio vuol dire ricominciare a partecipare alla comunità, vuol dire che nel pomeriggio ci si può impegnare nel terzo settore per fare solidarietà, vuol dire riappropriarsi anche dei processi politici. Parte della degenerazione del sistema politico territoriale del Mezzogiorno è dovuto anche al fatto che nei paesi, anche come effetto di questa nuova fuga, si sono indebolite le loro competenze, le loro capacità di partecipazione. Altri dati del rapporto Svimez ci dicono che, riguardo al fenomeno dello spopolamento dei piccoli comuni (al di sotto dei cinquemila abitanti), negli ultimi dieci anni sono stati persi 250mila abitanti, come se un’intera città del Mezzogiorno fosse scomparsa. La quota riporta un saldo negativo della popolazione soprattutto nei comuni montani e collinari, con un processo di redistribuzione sul territorio molto concentrato su queste aree. È vero che anche alcune aree del centronord sono caratterizzate da fenomeni di spopolamento, ma sono di dimensioni molto inferiori. C’è un gigantesco tema del Mezzogiorno e quindi bisogna intervenire. Le proposte Innanzitutto una migliore offerta dei servizi pubblici. Ovviamente è da mettere in relazione alla carenza dei sistemi produttivi e la carenza di offerta di lavoro. Anche il sistema produttivo sta cambiando. Le dinamiche di fuoriuscita dal Sud e soprattutto dalle aree interne del Mezzogiorno, è prevalentemente dovuto a quel processo di indebolimento dei servizi pubblici nel corso degli ultimi dieci anni, soprattutto dopo la crisi del 2008. Questo indebolimento ha riguardato la sanità, l’istruzione, l’assistenza sociale in tutto il Paese per politiche di risanamento finanziario, i tagli alla spesa pubblica, ma gli effetti si sono visti in maniera molto più rilevante proprio dove le comunità erano più deboli. Si è ridotta l’offerta di servizi essenziali, quelli che io chiamo i diritti di cittadinanza: un ospedale raggiungibile in tempi minimi per salvarsi la vita; poter avere un’offerta di scuole raggiungibili in maniera rapida e con un’offerta di tempo pieno nella scuola primaria; avere un’offerta scolastica per bambini da zero a due anni; avere un’adeguata assistenza sociale per gli anziani. Le interrelazioni Emigrare non è soltanto andare altrove per trovare lavoro, cosa che caratterizza storicamente certi territori, ma la mia paura è che in queste aree si sia persa non soltanto la speranza di un lavoro ma quella di essere in un luogo in cui si possano trovare delle opportunità o crearsi delle opportunità. Nel corso degli ultimi anni diventa centrale la capacità di creare impresa, startup, piccole imprese, ma questo è realizzabile in un contesto dove innanzitutto c’è l’offerta di servizi pubblici essenziali, una mobilità efficace. Qui faccio un’osservazione che riguarda proprio la Strategia per le Aree Interne. È una politica place based importante e da difendere, però stiamo attenti a non farne una sorta di circolo delle aree interne che si confrontano per condividere i problemi. Le soluzioni da dare dipendono soprattutto dalla capacità di connetterle con i medi e grandi centri del suo territorio. Una vera strategia per le aree interne deve essere accompagnata da una coerenza delle politiche messe in campo soprattutto dalle Regioni. Le regioni sono molto attente nella fase di definizione del territorio delle aree interne, perché anche questo crea consenso, ma non sono state altrettanto efficienti nel costruire all’interno delle strategie regionali quali sono gli interventi che possono aumentare la capacità di connettersi tra questi territori. Questo vuol dire mobilità ma vuol dire anche interventi su sanità, istruzione e altro. Rafforzare le scuole secondarie di secondo grado, costruire dei profili di alta capacità, crearsi le competenze che utilizzino il bacino delle aree interne con servizi efficienti che collegano questi istituti scolastici col territorio, vuol dire creare degli hub di innovazione e competenza all’interno dei territori. Vivendo in Campania, non si deve per forza andare a studiare a Napoli, si possono costruire degli hub soprattutto della scuola secondaria di secondo grado con istituti tecnici connessi con le aree produttive del territorio stesso. Andrebbe costruita un’agglomerazione allo sviluppo compatibile con la diffusione di queste opportunità. C’è molto da fare, abbiamo un’opportunità gigantesca, ovvero la partenza della nuova programmazione 2021/2027 insieme al Piano Next Generation. Non tenere conto della specificità delle aree interne e anche delle sue straordinarie potenzialità, di cui ci siamo accorti in questa fase di pandemia, sarebbe un disastro. Su questo, anche la riflessione di oggi e il ruolo fondamentale che svolge la comunità che voi rappresentate, la rete dei vescovi, può raffigurare uno strumento per la costruzione di questa prospettiva. |